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LA RICERCA SCIENTIFICA BIOMEDICA E LA SPERIMENTAZIONE ANIMALE

Gianni Tamino - Firenze, Facoltà di Medicina, 10 novembre 1995

Dobbiamo domandarci se vi è una base scientifica nella sperimentazione sugli animali.
Quattrocento milioni di animali muoiono ogni anno nei laboratori. Di questi, il 70% è impiegato per testare prodotti cosmetici (ciprie, rossetti, ecc.), prodotti industriali (detersivi, saponi, ecc.), prodotti bellici (gas tossici, radiazioni atomiche, ecc.), o per prove psicocomportamentali; il 20% è impiegato nell'industria farmaceutica per lo studio di nuovi farmaci; l'altro 10% alimenta la ricerca negli istituti universitari e negli ospedali. Probabilmente gli stessi vivisettori sono convinti che potremmo eliminare gran parte della sperimentazione animale senza mettere in pericolo il progresso medico o la scoperta di nuove molecole utili per la cura delle malattie umane. Ma la maggior parte degli sperimentatori ritiene che almeno una parte della vivisezione sia indispensabile per il progresso biomedico.
Anzitutto va detto che la vivisezione trae origine da una visione meccanicista della natura, che assimila uomini ed animali a delle macchine, di cui si pensa di poter conoscere il funzionamento attraverso una relazione meccanica tra le parti.
In quest'ottica, l'animale-macchina diviene un modello per l'uomo-macchina.
Questa logica dovrebbe fondarsi su precise corrispondenze tra uomo e animale; ogni biologo sa invece che animali diversi possono presentare alcune caratteristiche anatomiche e fisiologiche simili o uguali, ma molte altre in parte o del tutte diverse; e già questa considerazione rende il modello animale del tutto inaffidabile, poiché ogni animale è solo modello di se stesso.
Inoltre gli animali usati per gli esperimenti sono animali selezionati artificialmente (di cui non si conosce l'idoneità a vivere in un ambiente naturale e tantomeno in un ambiente artificiale come quello di laboratorio), tenuti in gabbia senza quegli stimoli indispensabili a sviluppare le proprie potenziali autodifese. Così l'animale da laboratorio è un animale non corrispondente a quello che vive nel proprio ambiente naturale e tutti gli esperimenti fatti su di lui non sono neppure utilizzabili per altri animali della sua stessa specie, che vivono in un normale contesto spazio-temporale.
Ad esempio, gli animali che vivono senza stimoli naturali, in spazi angusti e privati delle loro esigenze biologiche, sono animali altamente stressati; oggi sappiamo che lo stress riduce fortemente le difese immunitarie, e che alcune specie di animali usati in laboratorio, in condizioni spazio temporali alterate, possono lasciarsi morire.
Tutto questo è noto agli sperimentatori, che spesso sfruttano queste caratteristiche per ottenere risultati precostituiti: animali trattati con sostanze tossiche e animali non trattati possono avere lo stesso indice di mortalità, poiché la vera tossicità è la vita di laboratorio!
A causa di questi errori ogni risultato sperimentale ottenuto su un animale non ci fornisce alcuna conoscenza in più: ciò che si è ottenuto si verificherà forse anche nell'uomo, forse no; ma noi sapremo se vi è o meno corrispondenza tra l'uomo e l'animale usato nella sperimentazione solo dopo aver sperimentato le stesse sostanze sull'uomo.
E' dunque l'uomo la vera cavia, e l'animale è un alibi per permettere di passare alla sperimentazione umana.
E' dunque impossibile vedere una base scientifica nella sperimentazione animale, mentre è purtroppo necessario riconoscere che la logica dell'animale-macchina ha fatto perdere di vista le relazioni che intercorrono tra ambiente, natura e organismi, valutando solo le singole parti e ignorando la complessità della realtà nel suo insieme.
Da ciò è derivato anche un modello sanitario in cui l'uomo è visto in funzione delle sue singole parti, che si possono alterare e ammalare, ma non nella sua globalità; ad ogni malattia corrispondono uno o più rimedi standardizzati (poco importa se si creano nuove malattie in altre parti del corpo, tanto ci sono comunque nuovi rimedi anche per queste) e di conseguenza anche le strutture sanitarie sono viste come "officine" dove riparare o sostituire i pezzi della "macchina" uomo.
Un tale modello ha portato a trascurare la prevenzione delle malattie e così, anziché individuare i processi e le strutture di autodifesa per potenziarli e per evitare la loro alterazione, si sono cercati modelli della "macchina" umana per effettuare verifiche ed esperimenti da trasferire all'uomo.
Le alternative alla vivisezione sono pertanto anche alternative al modello sanitario attuale.
Un modello diverso deve partire dalla domanda: perché ci ammaliamo? Ci ammaliamo perché entriamo in contatto con un agente patogeno. Ma non è la condizione unica. Ci ammaliamo se, venendo a contatto con questo agente, non siamo in grado di difenderci. Ad esempio, il fumo è una sostanza cancerogena. Ma nel nostro organismo vi sono meccanismi di difesa, e non tutti quelli che fumano si ammalano di cancro. Quando le difese sono ridotte (dallo stress, da cause genetiche o altro), può insorgere il cancro. La salute dipende dalle capacità di autodifesa. Prevenzione significa mettere l'individuo in condizione di difendersi, ricordando che le patologie più diffuse nella nostra società, come malattie cardiovascolari e tumori, sono di tipo degenerativo, strettamente legate all'ambiente e ai ritmi di vita: si tratta di malattie molto più facili da prevenire che da curare.
Vi è oggi una sensazione diffusa di sconfitta della scienza rispetto ai cosiddetti "mali incurabili", e sarebbe quindi opportuna una riflessione sulle ricerche fino ad ora svolte.
Illustri ricercatori hanno già messo in evidenza alcuni dei limiti di queste ricerche; ad esempio, il Prof. Sabin, che nel giugno del 1978, a Napoli, affermò: "i cancri da laboratorio non hanno nulla a che vedere con quelli naturali dell'uomo" e il Prof. Veronesi nel libro "Un male curabile" ha scritto: "i tumori dei topi, dei ratti, dei polli e delle cavie sono sostanzialmente diversi da quelli dell'uomo; diverso è il loro modo di formarsi, diverso è il loro modo di accrescersi, diverso è il loro modo di metastatizzare...". Recentemente, il Prof. Ames, Preside della Facoltà di Biochimica dell'Università di California, ha detto: "I rischi di tumore determinati da sostanze tossiche si studiano con esperimenti su topi e ratti, e il 42% delle sostanze finora esaminate si è rivelato positivo nel topo e negativo nel ratto, oppure il contrario. Quindi se due animali strettamente imparentati e di vita breve come il topo e il ratto forniscono risposte completamente diverse, se ne deve dedurre che la trasposizione dei risultati all'uomo è estremamente opinabile". E per quanto riguarda l'AIDS, ancora il Prof. Sabin, in una dichiarazione riportata dall'Espresso del 6 ottobre 1985, affermò: "il vaccino contro l'AIDS, in teoria possibile, non potrebbe avvalersi del modello animale".
In ogni caso sarà comunque sempre necessario un certo numero di farmaci per curare le malattie che possono insorgere: si pone dunque il problema di come sperimentarli.
Si può, a tale scopo, per garantire una più sicura sperimentazione clinica, provare i farmaci su cellule (cellule bersaglio e cellule che comunque possono entrare in contatto con il farmaco), mentre per verificare metabolismo ed effetti metabolici del farmaco si possono produrre chimicamente i possibili metaboliti e provarli, per studiare sia efficacia che tossicità, sempre su cellule e tessuti umani coltivati "in vitro".
Oltre a queste prove semplici, economiche e facilmente ripetibili, è necessario verificare mutagenesi e cancerogenesi con prove altrettanto semplici, economiche e facilmente ripetibili come il test di Ames sui batteri, il test di trasformazione cellulare, la verifica di aberrazioni cromosomiche e di SCE (scambi tra cromatidi fratelli del cromosoma), il test dell'eluizione alcalina del DNA, estratto da cellule trattate e così via, tutte prove che permettono di verificare un'azione mutagena o cancerogena della sostanza.
Come afferma P. Croce: "I risultati tossicologici sulle colture di cellule umane potranno anche essere parziali, ma sono sicuramente riferibili all'uomo; i risultati delle prove tossicologiche nell'animale sono globali, ma valgono solo per quella specie animale e soltanto per caso coincidono, talvolta, con quelli umani: questo possiamo saperlo soltanto "a posteriori", dopo aver provato sull'uomo".
Tutti i dati ottenuti in questo modo possono permettere, con l'ausilio di un computer, di effettuare simulazioni riferite alla condizione umana in prestabilite situazioni fisiologiche o patologiche.
Comunque, ogni farmaco alla fine deve essere sperimentato sull'uomo: oggi la sperimentazione animale, come ho già detto, è solo un alibi per fare sperimentazione umana.
Le verifiche appena ricordate, per le considerazioni già citate di P. Croce, permettono di passare alla sperimentazione umana con dati sicuramente riferibili all'uomo. Tuttavia perché questa sperimentazione risponda ai requisiti di eticità dovrà avere le seguenti caratteristiche:
1) sia fatta su persona portatrice della malattia in esame, escludendo i "volontari" sani;
2) la terapia sia idonea ad agire utilmente per quella e soltanto quella malattia;
3) il paziente sia consenziente, adeguatamente informato e possa in qualunque momento interrompere la sperimentazione;
4) la terapia sperimentale venga applicata solo qualora non esistano altre terapie ritenute più idonee per il paziente;
5) lo sperimentatore risponda in prima persona, anche dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni, degli eventuali danni subiti dal paziente.
Infine, una nota: in Italia la sperimentazione sull'uomo, obbligatoria e ampiamente praticata, non è regolamentata per legge.
A corollario di quanto esposto voglio mettere a confronto test di sperimentazione animale con altri test che rispondono a criteri di scientificità. Consideriamo le verifiche di tossicità acuta di una sostanza: vediamo il caso del DL 50.
Si tratta di quella dose della sostanza da sperimentare, con la quale muoiono il 50% degli animali; un esempio grossolano, per nulla scientifico, inutile, che dà risultati molto differenti per ogni specie di animale impiegata, ma non ci dice nulla sull'azione tossicologica della sostanza nel medio e lungo periodo, nulla sugli effetti mutageni e cancerogeni. Ed ogni ricercatore lo sa.
Ma in questo modo le industrie chimiche mettono in commercio prodotti per l'agricoltura (pesticidi) che hanno effetti disastrosi per l'uomo e per l'ambiente, che verificheremo (come già stiamo verificando) solo dopo molti anni e dopo molti profitti per l'industria chimica.
Un'altra prova altrettanto barbara e assurda è il "Draize-test", cioè la verifica delle alterazioni indotte nell'occhio di un coniglio vivo da parte di sostanze instillate nel sacco congiuntivale, mediante diretta osservazione durante i successivi 7 giorni (il grado di irritazione è indicato da un indice compreso tra O e 110). Come riporta Croce, anche questo test è grossolano, mal riproducibile e non estrapolabile all'uomo: una stessa sostanza provata in 24 diversi laboratori americani ha dato valori di irritazione variabili da 7 a 79, cioè da "non irritante" a "molto irritante".
Questi test sull'animale non hanno alcun valore scientifico: molto più riproducibili sono i test su cellule umane in coltura o, al posto del Draize-test, la tecnica messa a punto dal Dott. Bettero: la sostanza in esame è messa a diretto contatto con le lacrime umane e si verifica poi la concentrazione di istamina prodotta come diretta azione della sostanza irritante.
La validazione dei metodi alternativi
L'approccio molecolare e cellulare ha promosso, negli ultimi decenni, un enorme avanzamento delle conoscenze di base sui meccanismi essenziali dei processi vitali e patologici. E' dunque ipotizzabile che anche nel campo della tossicologia e farmacologia questo approccio possa fornire un grande apporto conoscitivo. Ai fini della predittività nei confronti dell'uomo, i modelli alternativi vanno però validati.
La validazione di questi modelli è oggetto ormai da tempo di programmi di ricerca nazionali e internazionali, di istituzioni pubbliche e private in Europa, negli Stati Uniti ed in Giappone. ll primo programma di validazione di colture cellulari è stato promosso dal FRAME (Fund for the Replacement of Animals in Medical Experiments), nel 1982, in Inghilterra. Ad esso ha fatto seguito, nel 1986, il programma scandinavo MEIC (Multicenter Evalutation Study of in Vitro Cytotoxicity). La Comunità Europea, nel 1988, ha varato un programma di valutazione dei metodi alternativi al test della irritazione oculare in vivo, che ha avuto un seguito nel 1990.
Attualmente, sullo stesso tema, è in corso uno studio internazionale che vede coinvolto al fianco della Comunità Europea, lo stesso governo inglese (Home Office). Il National Institute of Health di Bethesda (USA) ha appena varato un programma relativo alle alternative nella sperimentazione animale.
Sin dal 1981 la Johns Hopkins University di Baltimora ha istituito un centro apposito, il CAAT (Centre for Alternatives to Animal Testing), che, nel novembre 1993, ha organizzato il primo Convegno Mondiale sulle alternative nella ricerca, nell'insegnamento e nel vaglio delle sostanze.
Più recentemente, in Svizzera, è sorto un istituto analogo, il SIAT (Schweizerisches Institut fur Alternativen zu Tierversuchen), che ha avuto quest'anno il riconoscimento del governo cantonale. In Germania, l'Ufficio Federale della Sanità (BGA) ha istituito lo ZEBET (Zentralstelle zur Erfassung und Bewertung von Ersatz und Erganzungs methoden zum Tierversuch), un centro per la documentazione e la valutazione dei metodi alternativi alla sperimentazione animale. Nell'ottobre 1991 la Commissione delle Comunità Europee, su richiesta del Parlamento Europeo, ha istituito l'ECVAM (European Center for Validation of Alternative Methods); il direttore del centro, che ha sede ad Ispra (Varese) è stato nominato nel marzo 1993 ed il Consiglio Scientifico si è riunito a partire dal gennaio 1992.



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