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A chi servono i test su animali
di Fulco Pratesi
Il 92 per cento delle sostanze che superano gli esperimenti sulle cavie nei laboratori non sono efficaci sull'uomo. Queste pratiche sono quindi inutili alla scienza: ma utilissime ai profitti delle case farmaceutiche
("L'Espresso, 11 febbraio 2013: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/a-chi-servono-i-test-su-animali/2200058/12)
«Il sistema più efficace per restare avvelenati dai funghi è farli assaggiare al cane o al gatto di casa». Così scrivevo in un articolo sull'Espresso del 5 maggio 2006 dedicato alla sperimentazione animale.
Negli ultimi anni numerosi articoli scientifici (su 'Nature' e altre riviste altamente accreditate) hanno confermato ciò, dimostrando come il 'modello animale' sia inaffidabile e non predittivo per l'uomo. Dal lungo elenco di dichiarazioni di scienziati antivivisezionisti cito solo queste due: «Non siamo ratti da 70 kg! Se non fossero stati effettuati tanti test su animali oggi avremmo probabilmente disponibili modi più efficaci di curare le malattie». (T. Hartung, già Direttore Ecvam al Jrc, Centro Europeo di Ricerca.); «Ogni anno le industrie farmaceutiche sprecano migliaia di milioni di dollari usando come modelli i roditori nella ricerca oncologica» (R. Weinberg del Mit).
Nell'articolo Fare a meno delle cavie si sostiene che «senza gli animali non vi sarebbe ricerca». Abbondanti dati scientifici dimostrano il contrario. Ad esempio: le revisioni sistematiche del 2006 di Hackam & Redelmeier e del 2003 di Crowley WF Jr, in base alle quali la trasposizione dei risultati all'uomo fallisce quasi nel 70 per cento dei casi (nella ricerca di base i fallimenti sono del 99,996 per cento). Oppure i dati del Fda (organo che negli Usa controlla le sostanze nuove) ripresi da A. Harding su 'The Scientist': il 92 per cento delle sostanze che superano i test su animali non passano la prima delle quattro fasi di sperimentazione sull'uomo.
L'articolo sostiene anche l'insostituibilità dei primati nelle ricerche, citando i vaccini per l'epatite C. Ma recenti studi (come la revisione sistematica di J.Bailey del 2010) e gli articoli del dott. A. Knight (rivista Atla, 2007 e 2008) mettono in discussione la loro utilità. Inoltre, degli 85 vaccini contro l'Aids risultati efficaci e sicuri negli scimpanzè, non uno è risultato utile per l'uomo.
Gli stessi argomenti valgono per l'articolo C'è un topo in ospedale in cui la ricerca sui roditori (in crisi di credibilità) viene rilanciata con un nuovo 'packaging'. Ma chiamare "ospedale per topi" il laboratorio tradizionale e "malato surrogato" la cavia non cambia nulla al fatto che la cosiddetta strada maestra per la cura del cancro non può portare (salvo fortuite coincidenze) a risposte utili per l'uomo: diverse ricerche hanno rivelato che l'animale non è predittivo negli studi di cancerogenicità (A.Knight et al. 2006) e che il processo di tumorigenesi è diverso nel topo e nell'uomo (Rangarajan & Weinberg 2003).
Inoltre, di 20 composti noti che non causano il cancro nell'uomo, 19 lo causano nei topi (Ennever et al. 1987). E il 46 per cento delle sostanze che sono cancerogene per i ratti non lo sono per i topi, tanto che Albert Sabin dichiara che «i cancri da laboratorio non hanno nulla a che vedere con quelli naturali dell'uomo».
Ci si chiede allora perché possa sopravvivere ancora questo arcaico metodo di ricerca mentre andrebbero sfruttati ed ampliati i metodi recenti, specifici per la nostra specie, che, sfruttando le nuove conquiste della scienza, offrono enormi potenziali in più nell'affidabilità, nella quantità delle risposte che forniscono, nella rapidità e nella riduzione dei costi. Come fa la ricerca federale dopo la pubblicazione del rapporto 'Toxicity testing in the 21st century', commissionata dal Cnr degli Usa, in cui è annunciato un «cambiamento epocale nella tossicologia con il trasferimento dei test dallo studio dell'animale intero allo studio in vitro della cellula umana».
La risposta la dà il professor Claude Reiss, ex direttore del Cnrs francese: «Il fatto che la stessa sostanza possa essere dichiarata inoffensiva o cancerogena a seconda della specie animale utilizzata, fa della sperimentazione animale lo strumento ideale per commercializzare ogni tipo di prodotto, anche se pericoloso, e per mettere a tacere le vittime che osassero far causa al produttore».
Ha collaborato Alberto Infante
Negli ultimi anni numerosi articoli scientifici (su 'Nature' e altre riviste altamente accreditate) hanno confermato ciò, dimostrando come il 'modello animale' sia inaffidabile e non predittivo per l'uomo. Dal lungo elenco di dichiarazioni di scienziati antivivisezionisti cito solo queste due: «Non siamo ratti da 70 kg! Se non fossero stati effettuati tanti test su animali oggi avremmo probabilmente disponibili modi più efficaci di curare le malattie». (T. Hartung, già Direttore Ecvam al Jrc, Centro Europeo di Ricerca.); «Ogni anno le industrie farmaceutiche sprecano migliaia di milioni di dollari usando come modelli i roditori nella ricerca oncologica» (R. Weinberg del Mit).
Nell'articolo Fare a meno delle cavie si sostiene che «senza gli animali non vi sarebbe ricerca». Abbondanti dati scientifici dimostrano il contrario. Ad esempio: le revisioni sistematiche del 2006 di Hackam & Redelmeier e del 2003 di Crowley WF Jr, in base alle quali la trasposizione dei risultati all'uomo fallisce quasi nel 70 per cento dei casi (nella ricerca di base i fallimenti sono del 99,996 per cento). Oppure i dati del Fda (organo che negli Usa controlla le sostanze nuove) ripresi da A. Harding su 'The Scientist': il 92 per cento delle sostanze che superano i test su animali non passano la prima delle quattro fasi di sperimentazione sull'uomo.
L'articolo sostiene anche l'insostituibilità dei primati nelle ricerche, citando i vaccini per l'epatite C. Ma recenti studi (come la revisione sistematica di J.Bailey del 2010) e gli articoli del dott. A. Knight (rivista Atla, 2007 e 2008) mettono in discussione la loro utilità. Inoltre, degli 85 vaccini contro l'Aids risultati efficaci e sicuri negli scimpanzè, non uno è risultato utile per l'uomo.
Gli stessi argomenti valgono per l'articolo C'è un topo in ospedale in cui la ricerca sui roditori (in crisi di credibilità) viene rilanciata con un nuovo 'packaging'. Ma chiamare "ospedale per topi" il laboratorio tradizionale e "malato surrogato" la cavia non cambia nulla al fatto che la cosiddetta strada maestra per la cura del cancro non può portare (salvo fortuite coincidenze) a risposte utili per l'uomo: diverse ricerche hanno rivelato che l'animale non è predittivo negli studi di cancerogenicità (A.Knight et al. 2006) e che il processo di tumorigenesi è diverso nel topo e nell'uomo (Rangarajan & Weinberg 2003).
Inoltre, di 20 composti noti che non causano il cancro nell'uomo, 19 lo causano nei topi (Ennever et al. 1987). E il 46 per cento delle sostanze che sono cancerogene per i ratti non lo sono per i topi, tanto che Albert Sabin dichiara che «i cancri da laboratorio non hanno nulla a che vedere con quelli naturali dell'uomo».
Ci si chiede allora perché possa sopravvivere ancora questo arcaico metodo di ricerca mentre andrebbero sfruttati ed ampliati i metodi recenti, specifici per la nostra specie, che, sfruttando le nuove conquiste della scienza, offrono enormi potenziali in più nell'affidabilità, nella quantità delle risposte che forniscono, nella rapidità e nella riduzione dei costi. Come fa la ricerca federale dopo la pubblicazione del rapporto 'Toxicity testing in the 21st century', commissionata dal Cnr degli Usa, in cui è annunciato un «cambiamento epocale nella tossicologia con il trasferimento dei test dallo studio dell'animale intero allo studio in vitro della cellula umana».
La risposta la dà il professor Claude Reiss, ex direttore del Cnrs francese: «Il fatto che la stessa sostanza possa essere dichiarata inoffensiva o cancerogena a seconda della specie animale utilizzata, fa della sperimentazione animale lo strumento ideale per commercializzare ogni tipo di prodotto, anche se pericoloso, e per mettere a tacere le vittime che osassero far causa al produttore».
Ha collaborato Alberto Infante