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lettera di
OSA, "Oltre La Sperimentazione Animale"
al Direttore di "La Repubblica"
Dal Covid-19 l’opportunità per una Ricerca innovativa:
Di fronte all’attuale pandemia di Covid-19, in cui è vitale produrre risultati nel più breve tempo possibile, si assiste impotenti alla mancanza di volontà di utilizzare o esplorare metodiche innovative più veloci e più predittive per l’uomo.
Da tempo, sempre più evidenze scientifiche dimostrano come i NAMs (New Approach Methodologies) possano contribuire significativamente alla ricerca biomedica fornendo dei risultati più affidabili e rilevanti per la specie umana. Le più prestigiose riviste di settore lo documentano ma i comuni mezzi di informazione tacciono e si continua a ignorare il dovere di incentivarli dal punto di vista economico e formativo.
È gravissimo in un momento così critico, fare leva sulla fragilità ed emotività della popolazione e degli stessi operatori sanitari per continuare a cavalcare l’onda della inevitabilità della ricerca su “modelli animali”.
Le nuove metodiche hanno già contribuito a far avanzare le conoscenze scientifiche nel contrastare l’attuale pandemia. Un esempio per tutti: l’uso degli “organoidi” che si sono dimostrati utili sia per capire i meccanismi patogenetici alla base del processo infettivo, sia per testare la capacità inibitoria su SARS-COV-2 di alcuni farmaci, che poi sono stati utilizzati.
A tutt’oggi i “modelli animali” non hanno dato risultati soddisfacenti negli studi condotti su SARS e MERS; i topi (le cavie più usate nei laboratori di tutto il mondo) ad esempio, non possiedono il recettore cellulare utilizzato da SARS-COV-2 per infettare le cellule umane; altri animali, non roditori, o non sono suscettibili al virus o se infettati non mostrano i sintomi presenti nell’uomo.
Vanno incentivati studi clinici controllati per valutare in modo rigoroso le proposte terapeutiche; il virus necessita di utilizzare le strutture della cellula ospite per potersi replicare. Fondamentale quindi, per capire i meccanismi alla base dell’eziopatogenesi e dell’attività infettante del virus, è conoscere l’ospite: l’uomo. Il virus si comporta infatti come una “chiave” che entra dentro una ben precisa “serratura”. Essa è simile ma non identica in tutti gli esseri umani, si parla a tal proposito di polimorfismi genetici, che condizionano la risposta dell’ospite all’insulto virale, potendo fare la differenza tra una forma letale ed una asintomatica della malattia. La risposta dell’ospite non dipende solo dalle sue caratteristiche genetiche, ma in modo rilevante dal contesto ambientale in cui è inserito, o ha vissuto o vive, e questa è l’epigenetica: nuovo paradigma imprescindibile per approcciare allo studio delle malattie. Solo una ricerca improntata sulla biologia umana (human based) potrà dare risposte attendibili. I Nuovi Approcci Metodologici, integrati fra loro, possono dare risultati davvero utili.
È oltremodo disarmante constatare come modelli di ricerca la cui rilevanza è stata ripetutamente messa in discussione dalla stessa comunità scientifica, continuino a costituire il gold standard ed essere preferiti all’innovazione. Avvilente rendersi conto come la vera religione di oggi non abbia un dio, ma una scienza verso cui fare obbligatoriamente atti di fede. I sacerdoti, ricercatori mainstream che si ostinano su un certo modo di fare scienza, non accettano il confronto sul piano scientifico e ciò porta a un rallentamento della Ricerca. Chiunque critichi tutto questo viene relegato al silenzio e reso incapace di trovare il giusto spazio, pur legittimo, per avere voce.
Dr. Maria Concetta Digiacomo
Presidente
O.S.A. - Oltre la Sperimentazione Animale
30 aprile 2020
Lettera al Direttore del Corriere della Sera
Carissimo direttore Luciano Fontana,
Nella Sua bella risposta a Massimo Lodi nel Corriere del 20/4/20, su come dobbiamo comportarci in questo periodo di emergenza, Lei scrive, quale incoraggiamento, “sono spariti dalla circolazione i combattenti No-vax, così come i cultori dell’incompetenza”. Vorrei fare a tale proposito, due osservazioni, che spiego ai punti 1 e 2.
1)
il nome "no-vax" è stato da tempo attribuito ad un ampio ed eterogeneo numero di persone: sia a quei pochi che rifiutano tutti i vaccini, sia ad altri, assai più numerosi, che si oppongono non ai vaccini in sé, ma all’attuale politica vaccinale, adottata, o meglio imposta, nel 2018 in Italia. Fermo restando che il dibattito non è soltanto necessario, ma in modo generale indispensabile ai fini di un corretto progresso scientifico (vedi Karl Popper e Thomas Kuhn), ritengo assai utile far conoscere la posizione del secondo gruppo. Solo a quest’ultima posizione mi riferisco in questa mia lettera.
A mio parere essa riflette una più che comprensibile preoccupazione per i possibili danni derivanti dalla rivoluzionaria "nuova politica vaccinale" che ha investito tutti noi e che è stata sottoscritta con un accordo avvenuto a nostra insaputa.
Tale accordo, del 2014, ha stabilito che nel 2018 sarebbe stato introdotto in Italia l‘obbligo di effettuare a tutti i neonati ben 12 vaccini (poi ridotti a 10) al posto dei 4 vaccini precedentemente obbligatori (quando già eravamo lo stato dell’UE con il numero più alto di vaccini obbligatori !). L’accordo, come tutti sappiamo, è stato rispettato, con zelo e accanimento. Ma la maggioranza degli italiani non sa tuttora che se si moltiplica ognuno dei dieci vaccini per il numero di dosi prescritte (dunque calcolando i richiami), si ha un totale di vaccinazioni così elevato, che esso nei primi mesi di vita costituisce un reale pericolo per un neonato. Vengono introdotti nel suo fragile corpo, il cui sistema immunitario è ancora in formazione, non solo, uno sull’altro, i tanti virus modificati, ma anche una dose massiccia di sostanze molto tossiche (vietatissime nell’alimentazione anche degli adulti), usate come adiuvanti; soprattutto l’alluminio, ma in passato anche il mercurio.
Con chi ha sottoscritto l’Italia questo accordo? Con la Novartis, multinazionale farmaceutica (2° più grande nel mondo del settore farmaceutico, nata dalla fusione di Ciba Geigy e Sandoz, poi, dopo il 2014, fusa con Astrazeneca, creando la Syngenta, a sua volta fusa di recente con ChemChina). La Novartis voleva costruire nel 2014 un laboratorio di ricerca su nuovi vaccini vicino Siena. Ha partecipato all’accordo anche la Regione Toscana, (dove Novartis era già insediata), che avrebbe finanziato buona parte della struttura con fondi statali UE destinati a “ricerca, sviluppo e innovazione”.
L'Italia è oggi l’unica nazione al mondo ad avere l’obbligo dei 10 vaccini; con un accordo commerciale, essa si è - consapevolmente o no - impegnata ad essere il territorio per una sperimentazione estesa a TUTTI i neonati, senza il necessario “consenso informato” - intendo informato ! - dei genitori.
Il pericolo legato ai vaccini è riassunto in una frase scritta già 30 anni fa dal nostro più famoso immunologo:
"Paradossalmente le vaccinazioni hanno
portato ad una modificazione della
struttura del nostro sistema immunitario.
Cioè: evitiamo di prendere quella malattia, ma
Restiamo più facilmente attaccabili da altre”. Ferdinando Aiuti
Questa affermazione, ripresa da moltissimi scienziati, ci porta a capire che prima di adottare un vaccino si debbano fare attenti studi (di costi/benefici) per mettere a confronto i due possibili danni: quello della malattia che si vuole tenere lontana e quello che può derivare dal vaccino. Tenendo presente l’effetto cumulativo, nel caso di molti vaccini fatti a breve distanza di tempo, come pure la probabilità di incidenza indicata dalle statistiche della malattia in esame.
2)
E’ corretto dire che i cosiddetti “No-vax” si sono fatti assai poco sentire dopo l’inizio dell’epidemia di Covid-19. Ma il loro silenzio non è dovuto al timore di un confronto. Coloro che richiedono un uso corretto dei vaccini (e il cui nome giusto dovrebbe essere “Tutor-vax”) credono nella serietà dei nostri scienziati e attendono i risultati della loro ricerca per un vaccino affidabile. Sono convinti che, nel caso specifico dell’attuale epidemia di coronavirus, l’attesa non sarà tanto breve, in quanto il virus non è ancora ben identificato, ovvero è in parte ancora ignoto, perché soggetto a tante mutazioni (e ugualmente ignota sarebbe la durata della copertura vaccinale che si andasse eventualmente oggi a proporre).
3)
Non posso non aggiungere una mia osservazione, che ritengo molto importante (non relativa al testo sul Corriere): nel 1992 l’Italia si è dotata di una legge che prevede il rimborso per “danno (irreversibile) da vaccino”: è la legge 210/92 (un riconoscimento già molto importante, che copre i danni alla salute). Il Ministero della Salute fece sapere, su richiesta, che nel 1996, 4 anni dopo, le richieste di rimborso avevano raggiunto il numero di svariate migliaia.
Oggi invece nessun dato sulle statistiche dei danni è stato reso noto ! Non solo: talvolta ci viene anche detto, nelle interviste alle autorità, che non ci sono danni !
Per poi aumentare la nostra preoccupazione è giunta di recente la notizia, che negli Stati Uniti (dove qualsivoglia merce immessa sul mercato deve essere testata per eventuali effetti tossici) una sola categoria di prodotti fa eccezione a questa regola: I vaccini, che sono esonerati dai test di tossicità.
La notizia viene dall’avv. Robert Fitzgerald Kennedy Junior, nipote del fu presidente J.F.Kennedy e figlio del fu ministro della Giustizia Robert Kennedy, che ha sporto denuncia contro il suo stesso governo per tale questione. E’ riscontrabile su YouTube.
Caro Direttore, il mio fine attuale è di indurre garbatamente il Corriere della Sera a sostenere in Italia una politica di libertà vaccinale, (con l’eccezione eventuale di 3 o 4 vaccini obbligatori, massimo previsto nei paesi democratici). Non desideriamo più, oltretutto, essere costretti a vivere con angoscia l’evento gioioso della nascita di un bambino, con il quesito di “come lo possiamo tutelare dai vaccini?”.
Dopo l’esperienza del coronavirus è indispensabile ripartire costruendo una società più libera e non soggiogata ai poteri economici.
Penso che per informare i lettori sui temi qui esposti Le sarà facile trovare scienziati con una posizione prudente ed equilibrata. Il Suo prestigioso quotidiano, il Corriere della Sera, potrebbe e dovrebbe, dare loro spazio.
Come ormai è opinione diffusa, noi tutti potremo avere un futuro solo con la nascita di una nuova visione del mondo basata (specialmente in politica ed economia) sulla condivisione di valori spirituali, dei quali, per nostra fortuna, l’Italia è ricchissima (arte, cultura, biodiversità, tesori ambientali, beni comuni). Tale visione dovrà basarsi principalmente sull’etica: onestà, libertà (anche dai “poteri forti”), solidarietà ed empatia nei confronti del prossimo (includendo nel “nostro prossimo” tutti gli esseri viventi).
Siamo in grande debito anche con i nostri discendenti, ivi comprese le generazioni future, che devono essere il primo oggetto dei nostri pensieri. Ho cercato di dare loro un piccolissimo contribuito con questa lettera. Spero che Lei sia riuscito a leggerla (nel quale caso Le sono molto grata) e possa darmi una brevissima risposta.
Con i saluti più cordiali e sinceri
Fabrizia Pratesi de Ferrariis Salzano
In occasione della 50esima giornata della Terra:
La posizione di Equivita sulla pandemia
La posizione di Equivita in questo momento tanto drammatico per il mondo intero è che non vi sarà un futuro se non si crea una nuova visione dell'intera società.
Questa dovrà basarsi sulla condivisione - in particolare nella politica e l'economia - di valori spirituali (arte, cultura e, in cima a tutto, tutela dell'ambiente, della preziosa biodiversità, di cui l'Italia è particolarmente ricca). Ma principalmente dovrà basarsi sull'etica, ovvero la solidarietà, l'amore per il prossimo (che include tutti gli esseri viventi che popolano il pianeta). Chi non saprà farlo sarà responsabile nei confronti delle generazioni future.
Cosa ci sta insegnando questa pandemia
(Gianni Tamino)
Pandemie e condizioni del Pianeta
L’obiettivo evolutivo di tutte le forme viventi è la propria riproduzione, per colonizzare l’ambiente di vita, obiettivo che entra in relazione, talora conflittuale, con lo stesso obiettivo riproduttivo di tutti gli altri organismi: da queste relazioni si sviluppano gli equilibri che caratterizzano gli ecosistemi e che pongono limiti alla crescita delle popolazioni e dei consumi di ciascuna specie. In ecologia si parla di carrying capacity (o capacità di carico) per spiegare che, sulla base delle caratteristiche di un ecosistema, gli individui di una popolazione non possono superare i limiti imposti dalle risorse disponibili. Un classico esempio per spiegare questo fenomeno è quello della relazione tra preda e predatore: alla crescita del numero di predatori corrisponde una diminuzione significativa del numero delle prede, che innesca - per scarsità di cibo - un conseguente calo anche dei predatori.
Nel caso della popolazione umana si utilizzano concetti simili a quelli di carrying capacity ma con terminologie e metodi di valutazione un po’ diversi. Si parla di “impronta ecologica”, cioè la misura del territorio in ettari necessario per produrre ciò che un uomo o una popolazione consumano. Questa analisi facilita il confronto tra regioni, rivelando l'impatto ecologico delle diverse strutture sociali e tecnologiche e dei diversi livelli di reddito. Così l'impronta media di ogni residente delle città ricche degli USA o dell’Europa è enormemente superiore a quella di un agricoltore di un paese non industrializzato, per cui sul pianeta un solo statunitense “pesa” più di 10 afgani.
L’Overshoot Day è, invece, il giorno in cui il consumo di risorse naturali da parte dell’umanità inizia a superare la produzione che la Terra è in grado di mettere a disposizione per quell’anno: nel 2019 questo giorno è stato il 29 luglio. Dunque in circa sette mesi, abbiamo usato una quantità di prodotti naturali pari a quella che il pianeta rigenera in un anno. Il nostro deficit ecologico, pari a cinque mesi, provoca da una parte l’esaurimento delle risorse biologiche (pesci, alberi ecc.), e, dall’altra, l’accumulo di rifiuti e inquinamento, responsabile anche dell’effetto serra. Le attività umane stanno, dunque, cambiando l’ambiente del nostro pianeta in modo profondo e in alcuni casi irreversibile. Stiamo dunque superando, anzi abbiamo già superato i limiti delle capacità del pianeta di sostenere la popolazione umana e mettiamo a rischio la sopravvivenza di molte altre specie. L’attuale sistema produttivo industriale ed agricolo sta gravemente compromettendo anche la biodiversità del pianeta. Molte specie di animali e di piante sono ridotte a pochissimi esemplari e, quindi, in pericolo o, addirittura, in via di estinzione.
Le dimensioni e i consumi delle popolazioni umane sono variati moltissimo nel corso dei millenni, ma ogni volta che le risorse disponibili diventavano insufficienti, le popolazioni venivano ridimensionate, attraverso sistemi di autoregolazione.
Fino a 12 mila anni fa la popolazione umana di raccoglitori e cacciatori, già presente in tutto il pianeta, per motivi di sostenibilità, cioè disponibilità di cibo, non superava probabilmente 1-2 milioni di abitanti, dato che ogni tribù doveva avere un ampio territorio di raccolta e di caccia e quel cibo costituiva il limite alla crescita. Si trattava di un sistema ben autoregolato e in equilibrio con il proprio ambiente; in qualche modo le società di allora potevano essere felici, perché utilizzavano quanto la natura offriva loro, senza un lavoro che occupava tutto il tempo di vita e quindi con tempi adeguati per le relazioni e per il riposo, come il mitico periodo dell’Eden.
In seguito, in varie zone del pianeta, come nella mezzaluna fertile, in medio oriente, un importante cambiamento climatico, con riscaldamento globale, diffusione di animali e piante nelle regioni in cui il clima divenne più caldo e umido, favorì la cosiddetta rivoluzione neolitica, cioè l’agricoltura e l’allevamento. In tal modo i limiti della crescita demografica cambiarono perché, seminando piante e allevando animali, sullo stesso territorio si potevano sfamare fino a 1000 persone anziché 40-50, portando la popolazione ben oltre la dimensione di un paio di milioni. Tuttavia quando l’annata dava raccolti scarsi o quando la popolazione cresceva troppo, non restava altra via che la migrazione verso nuove terre da coltivare. Così pian piano questa nuova cultura si estese, a partire dall’Anatolia, a tutta l’Europa e, partendo da altre zone, a gran parte dell’Asia e parte dell’Africa. In tal modo la popolazione mondiale arrivò prima a decine, poi a centinaia di milioni di abitanti, già alcuni secoli avanti Cristo. Si stima che nell'Impero Romano, tra il 300 ed il 400 d.C., vivessero tra 60 e 120 milioni di abitanti; ma tale popolazione fu duramente colpita dalla cosiddetta Peste di Giustiniano, che portò a decine di milioni di decessi. In pratica quando, in base alle caratteristiche ambientali, climatiche, politiche e tecnologiche (capacità di produrre cibo), si superava il limite demografico per quel territorio, intervenivano fattori ambientali e sociali che riportavano la popolazione sotto il limite. Analogamente tra il ‘300 e il ‘600 scoppiarono varie epidemie, associate a carestie e guerre, come la peste decritta dal Manzoni ne “I promessi sposi”, e la popolazione europea subì periodiche drastiche riduzioni.
Anche l’emigrazione ha costituito un elemento equilibratore dell’incremento demografico. La popolazione europea ha trovato, dopo la scoperta dell’America, nuove terre da coltivare, spazi da abitare, ricchezze da sfruttare, sottraendoli ai nativi che, oltre a essere massacrati, venivano debilitati da epidemie di malattie portate dai conquistatori.
Oltre alle epidemie di peste già ricordate, nel corso della storia umana, anche recente, si sono succedute molte altre epidemie/pandemie, alcune collegate a guerre e carestie.
Tra le molte succedutesi, vanno ricordate le ricorrenti epidemie di tubercolosi, malaria, colera, dissenteria, AIDS, ebola e soprattutto le recenti pandemie di influenza (spagnola, asiatica, Hong Kong, suina e aviaria), oltre ad altri tipi di coronavirus, precedenti il Covid-19 (SARS e MERS). Ma non va dimenticata la comune influenza stagionale, che, pur con un tasso di letalità inferiore a 0,1 (cioè meno di un decesso per mille malati), causa ogni anno, secondo l’OMS, circa mezzo milione di morti in tutto il mondo e secondo Epicentro, considerando decessi diretti e per complicanze a malattie pregresse, si arriva a circa 8 mila morti all’anno in Italia.
Certamente il più rilevante ed interessante caso recente di pandemia è quello dell’influenza spagnola (1918-20), forse la peggiore pandemia della storia dell’umanità per numero di contagiati e di morti. Tra il 1918 e il 1920 contagiò circa un terzo della popolazione mondiale, mietendo molte decine di milioni di morti, dal momento che aveva una letalità superiore al 2,5%. Mentre normalmente i tipi nuovi di virus attaccano soprattutto anziani e persone debilitate, questo tipo di virus fu particolarmente letale nei soggetti tra i 15 e i 44 anni. Venne chiamata “Spagnola” perché fu comunicata per la prima volta dai giornali spagnoli, ma l’origine venne poi identificata in un ospedale militare francese, a Etaples, sovraffollato, impegnato a curare migliaia di soldati vittime di attacchi chimici e di ferite di guerra: era un luogo ideale per la diffusione di un virus respiratorio.
Questa pandemia, sorta sul finire della prima guerra mondiale, mette in evidenza la relazione tra le limitate risorse, la malnutrizione (carestia), la scarsa igiene e una popolazione, soprattutto giovani militari ammassati al fronte, debilitata dalla guerra.
Come abbiamo visto, epidemie e pandemie sono uno dei possibili meccanismi di controllo delle popolazioni, insieme a carestie, guerre e migrazioni: quanto più si superano i limiti della disponibilità di risorse del territorio, quanto più si altera l’ambiente di vita, tanto più facilmente uno o tutti insieme questi meccanismi entrano in funzione. La crescita della popolazione umana fino a più di 7 miliardi di abitanti, è stata resa possibile dalla Rivoluzione Industriale, che ha utilizzato enormi quantità di energia di origine fossile per attività impensabili in precedenza, non solo nell’industria, ma anche in agricoltura, con la cosiddetta Rivoluzione Verde. Tuttavia il cibo ottenuto potrebbe sfamare anche più di 7 miliardi di persone se venisse equamente distribuito e prodotto in modo sostenibile, ma una iniqua utilizzazione delle risorse, una crescente disparità tra pochi ricchi e molti poveri, una riduzione delle terre coltivabili a causa della cementificazione, la perdita di fertilità dovuta alle monocolture gestite chimicamente, l’inquinamento ambientale, l’alterazione del clima, danno origine a frequenti casi di carestie e di malnutrizione in ampie fasce della popolazione, soprattutto al sud del mondo.
A partire dalla rivoluzione industriale abbiamo imposto un’economia lineare su un Pianeta che invece funziona in modo ciclico. La conseguenza è una continua crescita dell’inquinamento e un cambiamento climatico sempre più minaccioso per il mantenimento degli ecosistemi e della biodiversità. Tutto ciò comporta la morte prematura di molti milioni di persone, ma anche un incremento di malattie cronico degenerative, con conseguente indebolimento di tutta la popolazione, che risulta meno idonea a difendersi da altre malattie come quelle infettive.
I cambiamenti climatici e la riduzione delle foreste con l’alterazione degli habitat di molte specie animali, mette sempre più facilmente a contatto animali selvatici con esseri umani, un contatto ancora più stretto quando questi animali vengono catturati per essere venduti in mercati affollati, rendendo più facile il salto di specie per i loro patogeni (si pensi al virus di ebola). Inoltre gli allevamenti, in particolare di polli e suini, con concentrazioni di molti capi in spazi ridotti, alimentati con mangimi contenenti antibiotici, favoriscono una forte pressione selettiva sui loro virus e batteri, che mutano velocemente verso ceppi e tipi più aggressivi anche verso la specie umana, come è avvenuto per l’influenza aviaria e suina.
Un’ulteriore contributo alla diffusione di agenti patogeni è dato poi dalla globalizzazione, che, grazie al frenetico trasferimento in ogni parte del pianeta di persone e merci, favorisce il passaggio da epidemie a pandemie.
La pandemia da Covid-19
Dunque la nuova pandemia del virus Covid-19 era prevedibile e ampiamente prevista, se non proprio nei termini e nei tempi precisi, sicuramente come evento probabile.
Già nel 1972, nel rapporto del MIT per il Club di Roma, dal titolo “I limiti dello sviluppo” si affermava che se la popolazione mondiale continuava a crescere al ritmo di quegli anni, la crescente richiesta di alimenti avrebbe impoverito la fertilità dei suoli, la crescente produzione di merci avrebbe fatto crescere l’inquinamento dell’ambiente, l’impoverimento delle riserve di risorse naturali (acqua, foreste, minerali, fonti di energia) avrebbe provocato conflitti per la loro conquista; malattie, epidemie, fame, conflitti avrebbero frenato la crescita della popolazione.
Vi è poi il libro “Spillover” di David Quammen; egli stesso spiega in una recente intervista: “Nel 2012, quando il libro è stato pubblicato, ho previsto che si sarebbe verificata una pandemia causata da 1) un nuovo virus 2) con molta probabilità un coronavirus, perché i coronavirus si evolvono e si adattano rapidamente, 3) sarebbe stato trasmesso da un animale 4) verosimilmente un pipistrello 5) in una situazione in cui gli esseri umani entrano in stretto contatto con gli animali selvatici, come un mercato di animali vivi, 6) in un luogo come la Cina. Non ho previsto tutto questo perché sono una specie di veggente, ma perché ho ascoltato le parole di diversi esperti che avevano descritto fattori simili.”
Questa pandemia, oltre a quanto già previsto da Quammen, è caratterizzata da un nuovo virus, che risulta molto contagioso, con letalità non molto elevata (circa 2-3%, comunque ben più alta della letalità della normale influenza che è intorno a 0,1%), perciò difficile da contenere e prevenire, tanto più che la maggior parte dei contagiati è asintomatica o con sintomi poco diversi dalla solita influenza. Avendo fatto da poco il salto di specie, il virus non trova ostacoli nella popolazione, senza difese anticorpali. Se si riuscirà a contenere la sua avanzata, come sembra sia avvenuto in Cina e nella Corea del Sud, grazie ad efficaci metodi di riduzione dei contatti tra le persone, ci sarà comunque un significativo numero di decessi tra la popolazione più anziana e soprattutto con patologie pregresse. Dobbiamo poi sperare che, come succede per altre infezioni da raffreddamento, con la stagione più calda si possa avere un’attenuazione della diffusione, ma di questa ipotesi non c’è alcuna certezza e l’evoluzione della pandemia è ancora tutta da scoprire.
In ogni caso il pericolo maggiore sta nella rapida crescita dei contagiati, con un numero significativo di ospedalizzati e circa l’8% dei positivi che ha bisogno di un trattamento di terapia intensiva. Se il numero dei positivi con sintomi significativi dovesse crescere ancora molto, entrerebbe in crisi il sistema sanitario, non solo perché non ci sarebbero posti per tutti nella terapia intensiva, ma si sottrarrebbero posti letto per gli altri malati, anche molto gravi (traumatizzati, oncologici, ecc.).
Per queste ragioni è fondamentale contenere la diffusione con ogni intervento che riduca i contatti personali e risulta incredibile la proposta fatta in Gran Bretagna da Boris Johnson, di lasciare che l’epidemia si diffonda nel paese fino ad un contagio del 60-70% della popolazione, per ottenere l’immunità di gregge: questa ipotesi significherebbe che circa 40 milioni di inglesi verrebbe contagiata e che, con i dati attuali di letalità (confermati anche dall’OMS), ci sarebbero circa un milione di decessi provocati o direttamente dal virus o dall’interazione tra virus e precedenti malattie. Inoltre non c’è alcuna certezza di una adeguata immunità di gregge sia perché per certe epidemie virali serve superare l’85% della popolazione infetta, sia perché sembra che possano esserci delle ricadute, anche in persone già guarite, data la probabile mutabilità del virus.
Come evitare pandemie future
Questa pandemia può costituire un utile avvertimento, per evitare nuove e più gravi pandemie, sicuramente probabili. Il Covid-19 è una reazione (tra le altre) allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta e quindi per prevenire nuovi eventi simili dobbiamo ridurre le alterazioni dell’ambiente, come la perdita di biodiversità, l’alterazione degli habitat e i cambiamenti climatici, favorendo processi produttivi industriali ed agricoli basati sull’economia circolare, sostenibili, con ricorso a fonti energetiche rinnovabili.
Già pochi mesi di blocco dei movimenti delle persone e di parziale riduzione di attività produttive hanno portato ad un netto miglioramento della qualità dell’aria sia in Cina che in Italia (soprattutto nel Veneto): questo dato va colto non come futura necessità di impedire la circolazione delle persone e delle merci o di non produrre beni necessari, bensì di ripensare i trasporti e le produzioni industriali ed agricole, in particolare ridurre gli allevamenti animali: attualmente vi sono nel mondo 1,5 miliardi di bovini, 1 miliardo di suini, oltre 1,5 miliardi di ovini e caprini e circa 50 miliardi di volatili. La massa degli animali allevati è ben maggiore di quella di tutti gli esseri umani, con enormi sprechi di cibo, forte inquinamento e forte aumento di virus e batteri che possono fare il salto di specie. Inoltre l’abuso in zootecnia di antibiotici è responsabile anche dell’aumento di batteri resistenti agli antibiotici, vanificando uno degli strumenti a nostra difesa da queste infezioni. Oltre a nuove pandemie virali, il futuro potrebbe riservarci una diffusione pandemica di nuovi batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico.
Non possiamo dimenticare, nell’ottica di “carestie, pandemie, guerre”, che stiamo assistendo a continue guerre locali, come quella in Siria, ma se la guerra diventasse globale, rischiamo la catastrofe conseguente all’uso di armi nucleari.
Secondo l’OCSE (rapporto del 2018 sulla fragilità degli stati) entro il 2030, fino a 620 milioni di persone, circa l’80% della popolazione più povera nel mondo, vivrà all’interno di Stati fragili, che attraversano situazioni di emergenza, esposti a conflitti, epidemie, povertà estrema, come effetti dei cambiamenti climatici. Queste popolazioni, così fragili ed indebolite, sono “terreno fertile” per la diffusione di epidemie, che, attraverso le inevitabili migrazioni, diverranno gravi pandemie: dobbiamo porre un freno a questo suicidio di massa, non solo cambiando il modo di produrre, di utilizzare le risorse naturali, ma cambiando completamente il paradigma culturale, economico, sociale e politico che ci ha portato a questo punto, che rischia di essere “un punto di non ritorno”.
Ma la pandemia ha anche messo in evidenza carenze dei sistemi sanitari nazionali, soprattutto di quei paesi dove si è scelto di smantellare il sistema pubblico: invertire questa tendenza e finanziare adeguatamente le strutture sanitarie pubbliche, insieme alle politiche di prevenzione, sarà un fondamentale argine a future pandemie.
Inoltriamo:
COMUNICATO-stampaWWF Italia 6.01.2020
EMERGENZA INCENDI IN AUSTRALIA
INCENDI, WWF: CIRCA 8MILA KOALA DISPERSI NELLE FIAMME E GIA’ PERSO IL 30% DELLA POPOLAZIONE
Quasi 500 milioni di animali uccisi dalle fiamme.
Ora si teme che intere specie animali e vegetali possano andare perdute per sempre.
Serve impegno forte e urgente dei governi per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C
È sempre più grave l’allarme incendi in Australia. Nel Nuovo Galles del Sud e nel Victoria è stato dichiarato lo stato di emergenza: siamo davanti ad alcuni dei più pericolosi e catastrofici incendi che l’Australia abbia mai visto. Solo nel Nuovo Galles del Sud sono stati bruciati più di 4 milioni di ettari, pari al doppio della Lombardia, e il numero aumenta. Secondo le ultime stime dell'Università di Sydney, circa 480 milioni di mammiferi, uccelli, rettili e altri animali sono morti a causa dei devastanti incendi boschivi del 2019, mentre nelle Blue Mountains solo a novembre e dicembre è andato bruciato il 50% delle riserve naturali.
Si stima che siano circa 8.000 i koala dispersi nelle fiamme, che nella costa nord del New South Wales hanno già ucciso circa il 30% dell'intera popolazione di questa specie. Una notizia gravissima, dato che in tutta la regione-prima che iniziassero gli incendi- i koala erano solo circa 28.000. La maggior parte dei koala della costa orientale australiana, infatti, vive all'interno del "Triangolo dei Koala", regione in cui la specie potrebbe estinguersi in soli 30 anni.
A causa del cambiamento climatico, gli incedi diventeranno ancora più frequenti e si teme che intere specie animali e vegetali endemiche dell’Australia, possano andare perdute per sempre. Anche Kangaroo Island, l’isola dei canguri nonché meta molto ambita dai turisti, è stata evacuata per l’emergenza incendi: un altro scrigno di natura divorato dalle fiamme che nessuno potrà più vedere come prima.
Chi sono i colpevoli degli incendi?
“Primi tra tutti la siccità e le temperature bollenti, causate dal riscaldamento globale, che hanno trasformato le foreste in prede facilmente divorabili dalle fiamme”. A spiegarlo è Isabella Pratesi, direttore del programma di Conservazione del WWF Italia, che in questi giorni si trova in Tasmania. Proprio lì, a più di 400 chilometri dalle coste australiane, nei giorni scorsi il cielo è coperto di fumo. “Gran parte della Tasmania è stata avvolta dal fumo degli incendi della costa orientale dell’Australia. La portata della devastazione è enorme e il vento ne porta la testimonianza fino in Nuova Zelanda- spiega Isabella Pratesi-. In Australia stanno bruciando le ultime foreste naturali di eucalipti e ad andare in fiamme non sono solo questi straordinari alberi con i koala, ma anche opossum, canguri grandi e piccoli, wallaby, wombat, ornitorinchi ed echidna”.
“È vero che gli incendi in Australia fanno parte dei processi ecologici- aggiunge Isabella Pratesi-. Ma quello che sta succedendo oggi è di una portata completamente diversa e in un contesto del tutto trasformato. A bruciare sono gli ultimi tasselli di ecosistemi naturali a cui non possiamo assolutamente rinunciare”.
Già questo rapporto del governo Australiano che risale al 2009 indicava come “le proiezioni climatiche modellizzate mostrano che gran parte dell'Australia meridionale potrebbe diventare più calda e secca. Tale previsione suggerisce che, entro il 2020, i giorni di pericolo di incendio estremo nel sud-est dell'Australia potrebbero verificarsi dal 5 al 65% in più di quanto non avvenga attualmente”.
Ora è necessario un impegno forte e urgente dei governi per contrastare i cambiamenti climatici e, per evitare che gli impatti siano ancora più violenti, dobbiamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C e quindi azzerare le emissioni di CO2 ben prima del 2050.
Roma, 6 gennaio 2020